lunedì 3 marzo 2014

Sfera marziale e palla ovale

Più pensiamo alla miriade di espressioni del kung fu, frazionato in discipline, scuole, stili più o meno legati a territori, maestri e metodi di insegnamento, più possiamo renderci conto di un aspetto che lo caratterizza, nel panorama delle arti marziali e anche degli sport: non esistono regole formalizzate, ma soltanto principi e leggi, che sono però comuni – parliamo ovviamente dei più generali – anche a rami in apparenza lontanissimi.
Solo i rami recisi si sono dotati di schemi e livelli, come per esempio molte arti marziali giapponesi, con l'indubbio pregio di essere più facilmente riconoscibili e anche divulgabili, dal momento che forniscono a insegnanti e allievi un sistema di riferimento rigido per confrontarsi e misurarsi, anche oltre i confini dei propri paesi.
Una delle grosse difficoltà dei primi approcci al kung fu consiste proprio nell'entrare in questa dinamica così apparentemente “anarchica”, in cui si stenta a percepire la strategia e persino l'obiettivo dell'allenamento. Anche i progressi risiedono in una sfera nebulosa, che si tratti di percezione individuale o dello stesso giudizio di un maestro.

Sfericità e ovalità
Ebbene, si potrebbe affermare che è proprio la sfera uno degli elementi unificatori e degli orizzonti di questa disciplina! Prima o poi, infatti, in quasi tutte le scuole di kung fu ci sarà ricordato che occorre sentirsi in una sfera muovendosi in senso circolare: rimanere centrati ma al tempo stesso espandersi oltre i limiti abituali.
La sfera è polarizzata su uno o più baricentri, in geometrie tutt'altro che perfette, perché la “rotondità” non è statica ma in continuo movimento, quindi sempre deformata, vibrante, in un certo senso ovalizzata o, come si dice in gergo, spiralizzata.
Ispirarsi a questa legge è una delle chiavi essenziali del kung fu.
La dinamica sferica conferisce fluidità ai nostri movimenti e può anche diventare naturale nel tempo, ma, almeno inizialmente, può risultare tanto ardua quanto affrontare i rimbalzi capricciosi della palla ovale.
Continuiamo quindi a sfruttare le affinità con il rugby, traendo qualche ulteriore considerazione dal libro di Spiro Zavos, “L'arte del rugby”:

«Il rugby non ha regole (rules), ma leggi (laws). E il dettaglio linguistico è rivelatore dell'idea condivisa del gioco, del rapporto tra il singolo (giocatore e spettatore) e l'evento collettivo di cui è partecipe.
Durante la partita, la punizione per il giocatore che ignora le leggi [...] è in ragione della sua buona o cattiva fede, della sua semplice negligenza o del dolo, della sua recidività nell'errore. Nulla è meno tollerato nel gioco di una legge persistentemente violata per impedire all'avversario di godere appieno della suo diritto, della sua libertà, di muovere correttamente la palla.
Le leggi sono molte e dettagliate [...]. Ma come in ogni sistema democratico, non si è tenuti a conoscerle tutte. Per chi guarda e chi gioca (non per chi arbitra) è sufficiente avere assimilato i principi della Costituzione del gioco. In fondo, pochi».


E poi ancora: «Per banale che possa sembrare, vince […] chi fa più punti. E il modo in cui farli […] ricorda qualcosa della vita. Quindi non è poi così banale. Perché per fare punti si deve guadagnare terreno. Per guadagnare terreno si deve avere il possesso della palla. Per conservare il possesso della palla è necessario il sostegno».

Queste affermazioni possono completarsi idealmente con una nota dichiarazione di Daryl Haberecht, allenatore australiano del passato, citata nello stesso libro:
«Le leggi del gioco ti dicono ciò che non devi fare. È solo la tua immaginazione, invece, a limitare quel che puoi fare» (1). 


Giovanna Baiguera

Bibliografia essenziale: 
Spiro Zavos, “L'arte del rugby”, ed. Einaudi, 2007 
Stuff.co


Note
(1) La frase è legata, nella memoria collettiva, all'ardito stratagemma battezzato up-the-jumper (su-la-maglia), ideato nel 1975 da Haberecht, all'epoca allenatore del New South Wales Country, per garantirsi una meta decisiva in conclusione di match contro i rivali del Sydney, in minimo quanto inesorabile vantaggio. La squadra gallese, sfruttando l'occasione di una punizione a favore, si posizionò di spalle agli avversari e, attuando il comando del coach, provvide a nascondere nella maglia pallone e braccia di tutti gli attaccanti. Al via dell'arbitro, il fronte d'attacco si voltò e schizzò sparpagliato verso la linea di meta (alla notevole distanza di circa 40 metri), impedendo, di fatto, all'opposto fronte difensivo, di distinguere il portatore di palla. La meta fu raggiunta da Brian Mansfield, dopo un unico passaggio “di sicurezza” da parte di Greg Cornelsen, artefice morale della vittoria. Fu una tattica certamente sleale ma non espressamente vietata e infine legittimata dalla sua stessa genialità (“creatività sotto pressione”, secondo Zavos).





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