giovedì 1 maggio 2014

Yi quan, il grande pugilato (parte 4)


Una postura Shaolin
Dopo aver analizzato le famose interviste pechinesi di Wang Xiang Zhai, nelle quali il maestro contesta gli stili contemporanei e traccia le linee guida dell'Yi quan, cosa possiamo dire del metodo di Wang e del suo “grande pugilato”?
In primo luogo, che Wang fu, per l'epoca, davvero rivoluzionario. In una Cina ancora legata agli schemi classici, introdusse il concetto di scienza applicata al combattimento ed ebbe il coraggio di tagliare i legami con il passato, liberandosi dall'ingombrante mole di forme e tecniche prestabilite che aveva finito con il soffocare la vera natura dell'arte marziale cinese.

Secondo una accreditata corrente di pensiero, le forme (taolu), nate inizialmente come metodo per sviluppare un certo tipo di movimento e di forza, presero il sopravvento sull'applicazione reale degli stili nel momento in cui il combattimento non fu più necessario. Divennero così uno strumento di confronto incruento tra le scuole e, assieme, di promozione delle medesime. Si veda, per esempio, i lunghi e complessi prestabiliti (duilian) con i quali i praticanti esprimono i principi di uno stile mimando uno scontro reale. Insomma, su una cosa Wang aveva certamente ragione: troppe forme uccidono il kung fu. Non che, in questo, fosse un totale innovatore: gli stessi testi classici dicono di apprendere la tecnica, studiarla nel dettaglio e poi dimenticarla, per lasciare il corpo libero di esprimersi e la mente libera di cogliere ciò che il corpo trasmette.
La tipica guardia Yi quan
Le parole di Wang, quindi, se erano già utili 75 annni fa sono preziose oggi e in Italia, dove le occasioni di combattere sono (per fortuna) ancora meno frequenti che nella Cina di fine impero. Fossilizzarsi sulle forme, apprenderne i dettagli senza evolvere al gradino successivo significa allenare il proprio corpo (non sappiamo se in maniera dannosa, come sostiene Wang) ma di certo non porta a una buona difesa personale né a padroneggiare davvero l'arte del wushu. Purtroppo, è ciò che accade attualmente nel nostro paese, dove lo studio del kung fu si è ridotto alla scelta tra il wushu moderno, che è un'ottima ginnastica artistica, e varie decine di stili tradizionali. Che sono tali, tuttavia, soltanto di nome, avendo completamente dimenticato l'aspetto applicativo per concentrarsi esclusivamente sul gesto tecnico della forma individuale o, al massimo, del prestabilito, con o senza armi. E anche quando prevedono il confronto libero tra praticanti, lo fanno con le strategie e le tecniche del Sanda, ovvero del combattimento sportivo, non troppo dissimile da una comune kick boxing e certamente senza quei principi che da sempre caratterizzano il wushu cinese.

Da un estremo all'altro
Stabilito che un certo ritorno alle origini è indispensabile e che l'eccesso di forme è deleterio, ci si chiede: e nessuna forma, come teorizzato dall'Yi quan? Che effetto ha su chi si allena in questo modo?
Passaggio dell'allenamento Yi quan
La risposta è difficile. Secondo Wang, la via del combattimento passa per il palo immobile – si noti come tutti gli stili tradizionali attribuiscono a questa pratica enorme importanza, peraltro – e per i non meglio precisati – parliamo delle interviste – esercizi di “prova della forza”, comunemente eseguiti, a ogni modo, da chi pratica Yi quan oggi. In questa sua critica, Wang ricorda da vicino un suo successore, più noto al grande pubblico: Bruce Lee. Anche il maestro/attore americano parte da uno stile tradizionale, il wing tsun, e lo riduce all'essenza, miscelandolo con tecniche di altre discipline per costruire un suo metodo di combattimento, poi eretto al rango di stile dai suoi allievi. Tuttavia, tanto Wang quanto Lee sono, in origine, praticanti di stili tradizionali (Xing yi e Wing tsun), sebbene entrambi con poche o pochissime forme prestabilite. Pur avendoli poi eliminati, i dettami dell'apprendimento tradizionale erano pertanto nel loro bagaglio marziale. Fino a che punto, ci si chiede, hanno influito su ciò che sono stati successivamente i due maestri? E sarebbero diventati Wang Xiang Zhai e Bruce Lee se invece di iniziare con lo Xing yi quan e il Wing tsun avessero studiato da principio Yi quan e Jeet kune do (il non-stile di Bruce Lee)? Difficile dirlo. Chi ha seguito questa strada – ovvero chi ha utilizzato fin da subito il loro metodo, qualche volta ha ottenuto ottimi risultati, ma molto spesso è rimasto un mediocre praticante. Certamente, il 90% del risultato dipende dalla persona e non dallo stile, ma questo vale anche per i metodi tradizionali: chi li segue con dedizione e impegno – e soprattutto con intelligenza critica – ottiene risultati innegabili, anche nella scienza del combattimento. Per questo motivo, da misero istruttore di stili tradizionali faccio fatica a pensare che si possa diventare formidabili combattenti semplicemente esercitando il palo immobile – che indubbiamente fortifica il corpo e permette di scoprire dinamiche e forze nascoste, ma che se eseguito per sessioni oltre i 30 minuti può avere notevoli controindicazioni – e poi con pratiche come la danza dell'energia e il tuishou, più alcuni esercizi elementari in coppia. Affidandosi in seguito, per il combattimento, a un istinto che dovrebbe essere innato in ogni uomo. Ma che, a modesto parere di chi scrive, era presente in Wang in quanto vi era stato radicato, anche, da anni e anni di pratica e di confronti, ma non è certo abbondante in un tranquillo impiegato che sta su una sedia dalle 9 alle 18, nemmeno se costui dedicasse dieci ore settimanali alla pratica del wushu. In effetti, tutte le discipline in cui si prevede un confronto a contatto pieno, dal pugilato alle tanto declamate Mma, oggi, studiano tecniche e strategie, pur in forma e con metodi diversi dal kung fu tradizionale. 
In conclusione, e sempre da modesto praticante di wushu, l'Yi quan è senz'altro una eccellente pratica collaterale a uno studio tradizionale e sono d'oro le parole di Wang sui rischi legati a un eccesso di taolu e duilian. Né, senz'altro, questi ultimi possono bastare a costruire un combattente ma, anzi, lo deprimono. Quanto a fare del Dachengquan il solo metodo per l'apprendimento del combattimento... bisognerebbe vedere i risultati raggiunti da chi vi ha dedicato anni e passione, per potersi esprimere. Quel che si trova in rete (youtube, come ovvio) dice tutto e niente; come sosteneva Wang, nulla meglio dell'esperienza diretta può indicare la giusta via.

Ottavio (ovvero l'istruttore)



4 - Fine
Documentazione
Qui trovate le puntate precedenti: 
Parte 1
Parte 2
Parte 3
qui un video di combattimento tra praticanti di Yi quan
e qui uno didattico sul lavoro in coppia, dal tui shou al combattimento

4 commenti:

  1. Peccato, anche questa volta non una verità assoluta nè il metodo infallibile (e facile) per diventare il migliore: anche le parole e l'esempio di Wang alla fine rimandano a dedizione, studio e tanta fatica per trovare la propria via, quella che ti fare stare bene e ti permette di continuare a progredire, a livello personale e marziale!

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  2. Eh no, la via facile non esiste. Lavoro, sofferenza e la giusta dose di dolore servono sempre, altrimenti non si va da nessuna parte, come si diceva anche ieri allo stage.
    Però è interessante notare come le cose che dicevamo ieri a proposito del tai chi siano le stesse che scriveva Wang 70 anni fa a proposito del suo paese e consola pensare che anche allora, nel paese che ha visto nascere il wushu, si parlasse di decadenza e di inadeguatezza della maggior parte dei praticanti...

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  3. Già, x l'infallibile ricetta segreta dovremo attendere ancora.. gb

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  4. Cmq bravo istruttore, hai aggiunto il pepe x garantire un finale a sorpresa, dimostrando pure di aver messo a frutto gli insegnamenti del lontano maestro. Infatti, come lui ha sfidato la tradizione, tu hai messo in discussione la validità delle sue assunzioni... quindi, inevitabilmente, noi faremo lo stesso con te! ;-) gb

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